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Tempio Leon Battista Alberti
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Diana o Artemide?

Il rilievo ci presenta la figura di Artemide: la dea è rappre­sentata come cacciatrice insieme ai suoi attributi con­sueti, ovvero la falce di luna che le orna la testa, al pari di un sofisticato diadema, la faretra con le frecce, assicurata al busto tramite una leggera fascia che attraversa l’addo­me, e l’arco, che ella stringe nella mano sinistra.

Lo stato frammentario dell’opera, che risulta carente della por­zione inferiore secondo una linea che taglia a metà la coscia della protagonista, non ci permette di individuare un ulteriore elemento a corredo della rappresentazione: la cinghia stretta nella mano destra doveva infatti tenere legato, all’altra estremità, un cane o un cervo, anima­li che accompagnano spesso la dea rievocando il suo ruolo di cacciatrice. Appare invece piuttosto inconsueta la scelta di ritrarre la vergine completamente nuda, pri­va cioè del consueto chitone che la copre abitualmente quando si appresta a inseguire le fiere selvagge. L’immagine delineata nel rilievo mantovano coniuga la doppia iconografia di Artemide: quest’ultima è infatti associata sia al mondo della natura, e in particolare alla caccia, sia all’astro lunare e alla sua potente influenza sui fenomeni terrestri. Al pari di suo fratello Apollo, dio del sole, Artemide domina invece la notte e tutti gli aspetti oscuri a essa legati. Le sue frecce se da un lato sono strumento necessario per la preda degli animali selvaggi, dall’altro alludono ai fasci di luce della luna e delle stelle.

L’anonimo autore del marmo ha raffigurato la dea in una posizione alquanto innaturale: mentre infatti il vol­to è ritratto di profùo, le spalle appaiono perfettamente frontali, al pari dei seni; la torsione impressa al bacino lascia invece intuire un moto degli arti inferiori nella medesima direzione indicata dal capo. Del resto altret­tante incertezze si riscontrano nella caratterizzazione anatomica della figura, come si osserva nelle braccia dai muscoli simili a quelli di un lottatore antico, nei seni dalla forma conica o, ancora, nella resa approssimativa dei polsi e delle mani.


Donato all’Accademia di Mantova dal conte Giovanni Battista d’Arco, il rilievo fu esposto nel Museo dell’isti­tuzione, dove lo descrivono Matteo Borsa, nel catalogo dato alle stampe nel 1790, e successivamente Giovanni Labus, il quale lo riconosce in un’opera antica. Fu Carlo Ozzola a riferirlo all’epoca moderna e ad avanzare l’ipotesi che potesse trattarsi di una creazione di Pier Jacopo Alari Bonacolsi detto l’Antico. Sebbene l’attri­buzione a quest’ultimo scultore sia già stata smentita dalla critica successiva, l’accostamento a questo nome si rivela comunque significativo al fine di delineare uno dei caratteri principali dell’opera.

Con l’Antico l’autore dell’Artemide condivide infatti l’interesse per le testimo­nianze classiche e il desiderio di ricrearne le forme in una veste che potesse soddisfare i gusti dei committenti. Non sappiamo se fosse esistito un modello preciso che ispirò l’opera in oggetto: è certo però che sia il tema della dea cacciatrice, sia la predilezione per la tecnica del bassorilievo erano in grado di rievocare immediata­mente l’antichità e i suoi splendori. Non si può inoltre escludere che la scelta di una divinità femminile nascon­da la commissione di una donna, la quale si sarebbe ri­specchiata nelle virtù di cui Artemide era simbolo, come la purezza o la castità.

Dove vedere quest’operaDove vedere quest’opera
Collezione Vespasiano Gonzaga

prima metà del XVI secolo
marmo

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